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Se la presenza nella grande distribuzione implica investimenti insostenibili, il ricorso ad altri canali può rivelarsi altrettanto efficace.
L’esperienza Red Bull e gli inattesi effetti della (mancata) lotta per lo scaffale

Conquistarsi un posto sugli scaffali della grande distribuzione non è cosa facile, soprattutto per brand e prodotti nuovi, che devono ancora costruirsi una propria immagine e dimostrare di essere in grado di attrarre il consumatore. Talvolta, tuttavia, quello che sembra essere un ostacolo insormontabile si rivela un’opportunità.

È il caso di un prodotto oggi molto noto, la bevanda energetica Red Bull. Ai suoi esordi, prodotto e produttore erano quasi sconosciuti, e le proprietà della bevanda ne rendeva anche difficile l’esatto posizionamento. Inserirsi tra i prodotti venduti a scaffale implicava investimenti troppo onerosi, e l’azienda decise quindi di ricorrere a canali alternativi: si decide di assoldare gruppi di studenti nei vari campus universitari perché distribuissero l’energy drink durante i faticosi tour de force nel periodo degli esami, e la bevanda iniziò ad essere conosciuta e riconosciuta per le sue proprietà energizzanti. E si mormora anche (benché fonti ufficiali non confermino), che nella swinging London degli anni ’90 durante la notte nei pressi delle discoteche e night club più “in” del momento comparissero cumuli di lattine vuote di Red Bull. I clienti dei locali della moda cominciarono a incuriosirsi, chiedendo in giro cosa fosse quella nuova bibita che pareva avere un gran numero di consumatori ed essere dunque molto trendy. Iniziò così il felice (e molto richiesto) connubio di Red Bull mixata con la vodka, portando la bevanda energetica ai fasti dei nostri giorni.